Il Marco Polo si racconta

    Il Marco Polo si racconta

    Il mio sogno è far finire tutte le guerre

    L’inimmaginabile. L’inimmaginabile è solo una parola su uno schermo, un significato nascosto. L’inimmaginabile sono brividi freddi sulla spina dorsale, una voce che racconta anni di dolore, la mia mente che tenta di figurarseli. Inutilmente. Ci sono cose cui la nostra fantasia non arriva, l’empatia non funziona; quando non puoi immaginare, è in quel momento che le cose diventano orribili. Allora ti limiti ad ascoltare, e senti. È un ragazzo che parla, poco più grande di te, potrebbe essere chiunque, uno come tanti. Lo osservi, sembra un po’ timido. E come me, non ti aspetteresti mai la storia che sei in procinto di ascoltare. “Il mio nome è Bakary, Bakary Jobe” ci dice, “sono del Gambia, è qui, al confine con il Senegal” e con un pennarello ci indica il punto sulla cartina. Ed ecco che arriva il primo “termine”, il primo inimmaginabile: “in Gambia ci sono tre classi sociali: la famiglia reale, gli uomini liberi e gli schiavi. Io sono nato “schiavo”. Se guardate, ecco qui, sul braccio, c’è la cicatrice del segno che mi hanno fatto da piccolo. Con il fuoco mi hanno marchiato; con questo marchio mi avrebbero sempre riconosciuto.” Schiavitù. Questo ragazzo di fronte a me ha 23 anni e mi parla di schiavitù. Io non comprendo, all’inizio non capisco, come sia possibile che quella stessa schiavitù appartenente a secoli fa, quella che studiamo sui libri di scuola, esiste ora, davanti a me in carne ed ossa, ed è più reale che mai. Va avanti. Aggiunge che, a causa di quello status sociale “… mio padre quando avevo 5 anni, se ne andò. Un asino a fine anno non era abbastanza per mantenere tutti e tre, allora partì per cercare lavoro altrove. La mia unica comunicazione con lui si riduceva alle buste di soldi che spediva. Eravamo rimasti in due, io e mia mamma. Lei lavorava la terra, cercava di vendere i suoi prodotti al mercato. Ma chi vorrebbe mai comprare da una schiava? Alla fine, li tenevamo per noi. Un giorno successe che un serpente la morse, mentre lei era nei campi. Andammo subito all’ospedale, ma il veleno non aspettò le 15 ore di attesa che da schiavi ci spettavano. Troppe. Rimasi uno, solo.” Di nuovo quella sensazione di gelo al cuore, intorno a me, non udivo un respiro, nessuno osava muoversi. Si ferma per poco, poi riprende. “Avevo 13 anni quando lei se ne andò; quindi, mi incamminai verso l’unico posto sicuro che conoscevo, verso mio padre. Viaggiai per due anni, attraverso deserti, città in guerra, a piedi, in un minuscolo camion con altre 35 persone, uno sopra l’altro. Quando arrivai da mio padre non avevo più niente. Mi avevano derubato di tutto, il resto l’avevo bruciato per tenermi al caldo nelle gelide notti del deserto.” Il “resto” di cui sta parlando erano le poche pagine che aveva scritto negli anni, la sua unica passione… scrivere. Pensandoci ora, a mente fredda, non riesco a immaginarmi in grado di ridurre in cenere quella che è anche la mia passione; tuttavia, non riesco ad immaginare neanche di potermi trovare in una situazione similare. “Poco dopo essere riuscito a ricongiungermi con mio padre, lui morì. Successe che il suo capo non voleva alzargli lo stipendio e siccome lui si era licenziato il capo ritenne che la lezione migliore per me fosse imparare cosa accade quando non si seguono gli ordini. Lo uccisero.” Nella mia mente l’immagine dei miei genitori e di me con loro… non riuscivo ad immaginare. Solo un rumore sordo e un battito del cuore lento. “Infine, io ce la feci a scappare. Mi imbarcai e nel 2015 arrivai in Italia, io e le persone rimaste vive. Molti di quelli che erano partiti insieme a noi non ce l’avevano fatta. L’acqua aveva vinto la battaglia. Di quell’ultimo, estenuante, sforzo, ricordo solo le grida dei miei compagni. E se chiudo gli occhi, oggi ancora li sento, implorare aiuto. Mi perseguitano i loro gemiti, le loro richieste… ci chiedevano di chiamare, arresi ormai alla morte, al telefono i loro cari. Prima di partire li avevamo scritti sui pantaloni i nostri numeri telefonici, per dare a parenti o amici la triste notizia. Io ce la feci, loro no. Ma le probabilità sono così poche che, tornando indietro, non lo rifarei. Troppo rischioso! Mi basta riviverlo nella mia mente.” Ecco cos’è l’inimmaginabile, storie come queste. A migliaia. Purtroppo, non è necessaria la fantasia quando è la realtà a parlare. Non ho bisogno delle immagini artificiose della tv, quando ho un ragazzo che qui di fronte a me, mi racconta l’inimmaginabile: la verità. Grazie Bakary.

    (Gaia Pisanello, 3M)