Sembra ieri che ho varcato, per la prima volta, le porte del cancello del Marco Polo. In realtà sono passati già quattro anni. Il problema è questo! Dove li ho messi questi quattro anni? Nel senso che non ho la percezione di questo tempo. Quante cose avrei potuto fare con i miei compagni e non ho fatto! Perché non le ho fatte? Boh! Forse perché avevo altro da fare? Per fatica? Rimorso. Si, provo rimorso perché in questi anni, in questi giorni, in questi attimi, i miei compagni ci sono stati e poi un domani non ci saranno più e non avrò altre occasioni.
Il tempo, una parola breve e semplice con un suono dolce, ma che nasconde dentro di sé molti significati anche opposti tra loro
Significati che appartengono alla vita di ognuno di noi
Il tempo è numerabile, scandisce le nostre giornate con le sue ore, i suoi minuti e i suoi secondi
Scorre, viaggia e fa il suo percorso lineare
Una delle domande che l’umanità si fa da tantissimo tempo è “esiste un’entità celeste superiore che ha in mano la nostra vita? Dio (o Allah, Jahvè, o come volete chiamarlo/a) esiste?”
Questa è una domanda troppo complessa a cui rispondere, quindi ognuno risponde a questa domanda da sé, c’è chi ci crede e chi non ci crede in un Dio.
Io faccio parte di quelle persone che non riescono a crederci in un Dio ma, ehi, se tu ci credi è figo!
Rispetto molto le persone che credono, diciamo che io e la religione abbiamo un rapporto di amore/odio.
Non ho pianto quando è arrivata quella notizia. Un colpo d’acqua fredda, gelida. Mi ha bloccata sul posto, trattenuta al banco.
Sembrava che i sorrisi sui volti, le risate, tutto fosse stato schiacciato, calpestato, tutto è sparito.
Volato via nel vento. Ciò che era rimasto, dietro la scia del professore, era solo un freddo da farti congelare.
Come quando un Dissennatore ti risucchia la felicità.
Fino a qualche tempo fa, libera di scoprire quali viaggi strani potesse intraprendere la mia anima, tornavo a casa con il dolce sapore del sole sulla pelle e mi accoccolavo sul bordo del letto rannicchiata a palloncino, con la schiena incurvata e la coperta a proteggermi le spalle. Facevo sogni assurdi, di quelli irrealizzabili a volte, che mi facevano svegliare ogni giorno con la speranza che qualcosa potessi fare ancora. Nasceva la mia tendenza a vedere sempre il bicchiere più che pieno in questa vita confusionaria e tante volte quasi rissosa che mi prendeva a pugni, mascherati da leggere carezze. Io, però, la sentivo la vita e non avevo bisogno che essa, per occultare i suoi intenti, nascondesse parte della sua personalità. Cercavo di proseguire da sola una battaglia contro il mondo. Nei miei sogni funzionava: un cavaliere con l’armatura ed il pugno saldo cavalcava un terreno sabbioso ed infertile, ma la terra che con gli zoccoli il cavallo faceva tremare non riusciva mai ad oscurare il suo traguardo. Raggiungevo così la mia meta, ogni tanto un po’ astratta, per lasciare che la mia convinzione proseguisse dalla strada del sogno sino a quella della vita. Era in questo modo che la mattina mi svegliavo riposata e pronta a scoprire cosa avesse in serbo per me ogni nuova giornata.
Oggi il respiro del sogno si è fatto più flebile, più affannato, come se facesse un’enorme fatica ad esprimersi la notte. La notte che è diventata più scura, più tetra, silenziosa e sola e che avvolge ogni pensiero intrappolandolo nel suo guscio. La fatica di muovere un passo, di aggrapparsi ad un addio suona più forte in mezzo al canto dei gufi che durante il riposo accompagnano l’insonnia: non è concesso più godere del piacere di dormire. Ed allora le ore si accorciano, i sogni si spengono, le paure nascono e poi…
cosa ne sarà del giorno?
cosa ne sarà invece della notte?