Il Marco Polo si racconta

    Il Marco Polo si racconta

    Perfezionare l’insieme per distruggere il tutto

    Credere di amarsi per metà:
    è tutto quanto un’illusione.
    Il bene che si vuole al proprio corpo troppo spesso rimane un traguardo al quale mirare col lavoro dell’amore e lo stesso che si tenta di minare col prodotto dell’autovalutazione.
    Io mi presento così, insicura talmente da annebbiare la mia figura, creatrice così tanto da realizzarle un’altra dimensione. Se la S del mio corpo si snoda pacata lungo un perimetro di qualche metro, io la rincorro lontana dalla realtà per riavvolgerla dentro uno spazio piccolo abbastanza da confondersi tra i granelli di questa vita. E non prende spazio nelle connessioni con gli altri, può starsene là in silenzio a coltivare le proprie insicurezze. Si chiamano “punti deboli” e di debolezza ne promuovono tanta, forse tantissima, e la lasciano crescere spensierata lungo i bordi della vita per farla sfociare poi in qualche cosa di troppo o in qualche cosa di mancato. Niente si allinea più al giusto, al perfetto, a quello che per il resto dell’universo è l’obbiettivo più importante della vita: omologarsi. Non che tutti debbano possedere le medesime caratteristiche espresse attraverso gli stessi colori, ma in ogni caso c’è da faticare per guadagnarsi un pensiero orgoglioso di abitare nel corpo che piano piano sta fabbricandosi. Ogni sfumatura, se troppo libera di manifestarsi attraverso la forma di un busto o l’eleganza di una mano, rischia di sopperire, cancellata da strati di cotone o di polvere pigmentata per poi soffrire, costretta da una morsa alla quale solo la forza di volontà può sottrarla, quella che sempre più spesso è spinta invece a cercare la perfezione. Ma le imperfezioni si notano, contornano il viso e la vertigine è una sensazione che si presenta all’atto di abbassare la testa ed incontrare due gambe che superano il muro dei parametri predisposti. Si percepisce quando un sorriso sfocia in una lacrima e la sola stabilità che permane è quella offerta dal proprio busto, che da eretto non fa altro che accasciarsi quale preda di un giudizio che morde vorace tutta l’audacia per annientarla in un’ombra di paura. Si apre così, ogni giorno, ripetutamente, il viaggio di chi prova a guardarsi come me, osservare quel che è, per poi chiudere il cerchio della giornata col solito triste epilogo: girarsi di schiena per non intoppare in forme sbagliate e scatenare il meccanismo di calcolo complesso che da tempo corrode anche la mia prova più oggettiva di valutazione. Sta tutto qua, fuori dall’ottica altrui. È un disegno costruito su misura per sconvolgere i piani di chi solo abita entro le mura dell’oggetto di questo severo ed oppressivo giudizio e ciò per un motivo tutto folle ed allo stesso tempo tutto mio: non è il confronto con il resto del mondo a farmi paura, è l’accettare l’involucro che mi contiene per come è e non per come lo voglio.

    Giada Coveri, 4D