Il Marco Polo si racconta

    Il Marco Polo si racconta

    Un indirizzo al quale voglio arrivare da sola

    Qualche pomeriggio fa, stavo ragionando con i ragazzi della piccola redazione di cui faccio parte sul senso profondo di un articolo scritto da un mio compagno, il quale raccontava, attraverso parole dirette e precise, un argomento che a lui sta molto a cuore: la ricerca dell’individuo giusto che potesse assurgere alla funzione di guida, in un mondo veicolato dalla paura dei grandi, degli esperti, di coloro che vedono riflettere il male del mondo su ogni minuscola realtà. Ci siamo domandati, confrontandoci, quali fossero i motivi per i quali questo si verificasse, perché in ogni nuovo piccolo cosmo vi fosse da ricercare una realtà distorta rispetto a quella reale, una che facesse più paura, una che si presentasse meno ingenua. La risposta non è stata univoca: c’è chi ha esplicato qualche tesi e poi si è ricreduto sulla possibilità che valesse anche quella dell’altro e chi invece ha perseguito la propria strada verso il punto fermo sul quale si era focalizzato. A me ascoltare e raccontare ha portato a riflettere su di una questione forse poco affrontata e risolta sempre in modo troppo sbrigativo di questi tempi: quali sono quelle differenze che in particolari ed innumerevoli contesti dividono noi adolescenti, noi ragazzi, noi bambini dal mondo dei grandi? E perché dunque è avvertito sempre più consistentemente il divario, e la necessità di cancellarlo, impartendo lezioni che non insegnano, ma precludono?

    Così appare sempre più il mondo: un globo grande abbastanza da accogliere giusto una gerarchia di società in cui chi ha vissuto dirige e chi ha da vivere viene indirizzato. Ma così le scelte migliori non si personalizzano, rimangono là, uguali a come lo erano anni fa, senza evolversi né cambiare. Non si stimolano l’innovazione o l’intraprendenza, ma si rimane ingabbiati in un qualcosa che non è nostro e che non può esserci attribuito per consuetudine. Perché è questo che è, la consuetudine del dover ricoprire il ruolo di guardia per evitare che chi ha meno esperienza incappi negli stessi guai. La lamentela alla base del conflitto genitore-figlio nel contesto familiare o semplicemente adulto-bambino nella vita di tutti i giorni è però la diversità di strumenti. Si pensa che la nuova generazione, con la fortuna di trovare ai suoi occhi un mondo per la maggior parte accessibile, sia in possesso di maggiori armi per affrontare il mondo con facilità e, proprio per questo, le manchi il coraggio di accogliere la vita. I ragazzi di mezzo secolo fa, invece, senza scudi né lance, vivevano il senso della vita ogni giorno, adattandosi nel modo che più conveniva alle situazioni di cui si facevano carico: si costruivano piano piano la propria vita superando ogni rito di passaggio. Questa comunque è l’idea comune a chi non è immerso e cresce nell’oggi, a chi non affonda i propri piedi nel fango degli anni Duemila. Non è tutto rose e fiori e ce ne accorgiamo sempre un po’ di più: la storia cambia, le luci si accendono o si attenua il loro tepore, e a quel bambino che gioca in cortile col pony cresce la barba. La vita va avanti e scorre inesorabilmente, correndo dietro a qualcosa che non esiste, eppure ci guida tutti. Non c’è un percorso lineare da seguire che ci sia imposto da una legge. Siamo in un certo senso liberi. Non abbiamo bisogno di una culla ovattata dove far crescere i nostri sogni in incubatrice. Se essi si sporcano, cadono, si graffiano e tornano in piedi si fanno ancora più belli ed è questa la realtà che più mi piace, quella che riesce a colorarsi incontrando la vita in tutte le sue sfaccettature.

    Giada Coveri, 4D